Tutto ha inizio da un buco. Per l'esattezza da un buco di cubo.
Conviene mettere da parte la malizia. Un buco di cubo è un cubo
con un buco, niente di più.
Se non ci fosse stato, tutto quello che è venuto dopo sarebbe
rimasto dentro il cubo e visibile solo attraverso il suo buco.
Troppo quadrato il primo e troppo piccolo il secondo.
Il cubo/vaso la nostra Fulvia/Pandora l'ha rotto anni fa quando
ancora vestiva pantaloni sporchi di gesso e i suoi maglioni erano infilzati da qualche filo di ferro ribelle impigliatosi nella lana.
Il golf della zia oggi c'è ancora ma, se prestiamo attenzione,
troviamo nuovi e dichiarati indizi: qualche macchia colorata (pennarello), sbavature
di nero (inchiostro), piccoli pianeti di forme
diverse (ritagli di carta), tracce solide e incolori (ops, è solo colla).
La vera storia può cominciare allora con una moleskine e qualche
biro e, al punto in cui siamo arrivati, occorre un fermo immagine.
Fulvia (aka Miss Goffetown) è in partenza: quattro valige di
cartone, un teschio di mucca con le corna arcobaleno (Sergio Leone è risorto in
Brianza!), due cassette della frutta porta documenti. Per viaggiare con
lei basta mettere i suoi occhiali, lasciarla guidare e, ovviamente, perdersi.
Entriamo nel mondo di Miss Goffetown. Naive, sporcaccione, istintivo, romantico. Un mondo che vive delle
contraddizioni dell’ovvio. A renderlo speciale è un ingrediente per nulla
scontato: fantasia.
Dentro quelle sole valigie e in poche cassette possono essere
stipati un numero che ipotizziamo di cinquanta moleskine e millecinquecento
fogli. Collage, monotipie, incisioni, diari. Pagine e pagine di polaroid
illustrate.
Le mettiamo in fila, una via l’altra, sul rullo da proiezione.
La storia riparte.
Capitolo 1: natura e scopi del binocolo. Capitolo 2: l’origine
della diarrea. Capitolo 3: cos’è la felicità. Capitolo 4: sistema rapido per
allacciare le stringhe. Capitolo 5: utilità della bara da morto. Capitolo 6:
come si diventa santi. Capitolo 7: dov’è l’inferno. Capitolo 8: regole
fondamentali per la pesca delle trote. Capitolo 9: lista dei colori disponibili
in natura. Capitolo 10: ricetta del caffè latte. Capitolo 11: quando finirà il
mondo. E via dicendo.
Mettiamo gli occhialoni (non 3D che sarebbero “ini”, quelli di
Fulvia molto più “oni”).
Shh. Il film è iniziato.
Shh. Il film è iniziato.
Roberta Pagani
Occhiali e macchine fotografiche non vanno d'accordo. C'è poco
da fare. È una questione di ergonomia, di adattabilità tra corpo umano e corpo
macchina. Cosa possibile se non porti gli occhiali e riesci a schiacciare
l'occhio contro il mirino. Cosa quasi impossibile in caso contrario.
È per questo che hanno inventato i mirini con la regolazione
diottrica e gli extender oculari.
Robe da post human. Come gli occhiali, in fondo. Protesi che
simulano una naturalezza che non c'è. Lenti che fanno vedere il mondo come
sarebbe per qualcuno che gli occhiali non li porta.
È la tecnologia, il progresso, si dice, e ben venga. Se i
quattrocchi hanno un'aspettativa di vita uguale a chi non ha difetti di vista
lo si deve proprio a loro, agli occhiali. Quante vite avranno salvato nel corso
dei secoli? Migliaia se non milioni. Nel loro eroismo c'è però qualcosa che
puzza di socialmente scorretto, o che forse è solo difficile da digerire. È il
chiamare“difetto” quello che correggono, definire “correttive” le lenti che
incorniciano. Così sembra che quel che si vede senza il loro aiuto sia
sbagliato. In realtà è solo un mondo simile ma diverso dove cambiano
profondità, colori e nitidezza.
Fulvia disegna questo mondo. Disegna e non fotografa (o se
fotografa escono cose sfocate) proprio perché porta gli occhiali. Ma la
fotografia le piace e difatti i suoi lavori sono istantanee prese da giornali,
film porno o tratte dai suoi pensieri, dalla sua vita quotidiana. Il tutto ha
colori, forme, contorni poco reali (o poco realistici) perché Fulvia disegna
quello che fotograferebbe senza occhiali, senza mirini con la regolazione
diottrica, senza extender oculari.
Stefano Riba
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